Testimoniare la fede al capezzale di un bambino morente. Il ruolo del cappellano nell’accompagnamento alle famiglie che perdono un figlio in ospedale
Quale può essere il ruolo dell’assistente spirituale in un luogo dove i bambini soffrono e muoiono? In questo contesto si conferma in pieno ciò che papa Paolo VI già vedeva chiaramente cinquant’anni fa: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». Da questo presupposto, a mio avviso, derivano le caratteristiche del buon cappellano in contesti del genere: prima di tutto un uomo di fede, che abbia fatto un’esperienza di Dio nella propria sofferenza. Potremmo dire un “risorto-dentro”, uno che, ancora una volta come Giobbe, possa dire: «Prima ti conoscevo solo per sentito dire, ora ti ho visto faccia a faccia» (Gb 42). Uno che sappia annunciare, certo sostenuto da uno Spirito che avrà cura di alimentare continuamente, che persino lì dove c’è l’assurdo per l’uomo – la sofferenza dell’innocente – c’è Dio. Che c’è la possibilità di sperimentare la Vita nella morte. Una Vita che non ci appartiene, che non è una risorsa che troviamo nascosta dentro di noi, come dicono alcune filosofie, ma una forma di Vita che ha una sorgente altrove, che dobbiamo chiedere e ricevere, che è sovrabbondante rispetto a qualsiasi evento umano, anche il più difficile da affrontare.